L’attesa maggiore è per quello che ci dirà il Presidente della Regione Toscana Claudio Martini e soprattutto, credo, il Presidente Scalfaro, testimone e protagonista della storia della Repubblica sin dagli anni della Costituente.
Cercherò di contenere il mio intervento in tempi ragionevolmente brevi pur nella complessità del tema: memorie e bilanci.
Una domanda preliminare mi sembra opportuna: che rapporto c’è fra chi ha vissuto l’evento, il testimone, e lo storico?
Il tema si è riproposto di recente nella polemica, se così possiamo chiamarla, fra il presidente Ciampi e Ernesto Galli della Loggia. Non tocca ai politici che sono stati anche testimoni- ha detto in sostanza Galli della Loggia- formulare giudizi storici con la inevitabile conseguenza di svolgere una funzione censoria e ha aggiunto: “fra i doveri degli storici non c’è quello di essere patriottici” .
Gli ha replicato il Presidente Ciampi di aver voluto rendere una testimonianza e di avere, su di essa, sviluppato una riflessione e ha aggiunto: “rendere poi note queste riflessioni e valutazioni non è un atto censorio ma un atto dovuto. Vuole contribuire a tener vivo nei cittadini un forte senso della Patria”
Molti sono i problemi che al di là del contenuto –l’8 settembre e la presunta morte della Patria- la polemica suscita.
Che ruolo hanno la memoria e la testimonianza nella storia?
La storia è solo opera professionale degli storici o è anche coscienza collettiva che in qualche modo tutti concorrono a formare? Lo storico professionale ha o non ha una responsabilità di fronte a questa coscienza collettiva che fonda il senso della identità nazionale di un popolo?
Certo la memoria è altra cosa dalla storia: è un documento per la storia che va trattato criticamente come ogni altro documento.
Ma questo non significa che la memoria individuale sia irrilevante per la storia, purché usata criticamente: anche la razionalizzazione e perfino la deformazione del ricordo è documento per la storia; non si rimuove un elemento del passato senza un motivo che per lo storico è sempre importante.
Il fenomeno è analogo ma più complesso nella memoria collettiva: la memoria collettiva è il frutto dei mille intrecci e dei reciproci condizionamenti di tante memorie individuali. La politica e in particolare la politica dei partiti, le loro tecniche di propaganda e di mobilitazione collettiva, si servono della memoria collettiva, ma al tempo stesso la condizionano e la forzano contribuendo a plasmarla per i loro propri fini. L' intervento della politica sulla memoria collettiva è un ulteriore elemento che entra in gioco e diventa a sua volta oggetto di ricerca storica.
Lo storico deve tener conto di tutto questo complesso intreccio di fattori per utilizzare la memoria individuale o collettiva come documento per la storia.
Ma l’opera dello storico a sua volta, come la storia della storiografia mette in evidenza, non può prescindere dalla sua personalità, dalla sua formazione, dai suoi interessi e dalle sue passioni. Inevitabilmente essa si inserisce in questo complesso processo che nel suo insieme diventa elemento fondamentale per la formazione di quel senso di una storia comune in cui un popolo si riconosce e sul quale fonda appunto la sua identità.
E’ astratto e irrealistico immaginare lo storico, come uno scienziato che in un laboratorio svolga in maniera asettica il suo lavoro, fuori di questo processo: lo storico contribuisce di fatto –o non contribuisce- a formare il senso della identità collettiva e si assume la responsabilità civile che è indissolubilmente connessa con il suo lavoro professionale. A sua volta il testimone non fornisce solo con i suoi ricordi documenti per la storia ma entra anch’esso, dal suo punto di vista, diverso da quello dello storico, nel processo di formazione della memoria collettiva e della identità ad essa connessa. Giustamente Ciampi ha rivendicato il dovere di proporre le sue riflessioni come contributo al sentimento di patria.
Gli italiani stentano a trovarsi uniti sui momenti salienti della loro storia anche perché l'opera degli storici ha contribuito, con interpretazioni radicali e unilaterali, legate a presupposti ideologici e politici, a lacerare il tessuto della memoria. La storia comune non è una storia irenica in cui tutti vanno d'accordo: i conflitti sono parte essenziale della storia. Ma nel nostro paese manca il senso di una storia comune proprio perché i nodi conflittuali più significativi sono stati tagliati con la spada delle ideologie e non sciolti nella comprensione storica.
Anche le memorie e la storia della Repubblica hanno fortemente subito il condizionamento della politica. Si è stabilito così un rapporto tripolare: memoria, politica e storia nel quale è difficile districarsi.
Abbiamo bisogno di guardare criticamente dentro questo rapporto se vogliamo creare le premesse di una coscienza storica nuova, che favorisca il formarsi del senso di una storia comune.
E’ in corso una grande iniziativa alla quale per la prima volta partecipano fondazioni e istituti cultuali di diversa ispirazione, fra i quali anche l’associazione per la storia e le memorie della Repubblica. L’obiettivo è proprio quello di un bilancio della storia della Repubblica.
Naturalmente non posso antipare conclusioni di una ricerca che è appena in fase di programmazione.
E poi: come si fa un bilancio storico? Non è un bilancio contabile che si chiude in pareggio o in negativo. Il bilancio storico è presa di coscienza critica di un processo sempre aperto.
Se dovessi riassumere in una formula il bilancio sulla storia della Repubblica userei quella dello “sviluppo incompiuto”. Sviluppo incompiuto di un sistema politico; sviluppo incompiuto della formazione di una cittadinanza democratica; sviluppo incompiuto dei processi di secolarizzazione.
Accennerò appena a temi così complessi.
Bisogna partire dalla realtà del conflitto-comunismo anticomunismo che ha caratterizzato e condizionato profondamente la storia della Repubblica; capirlo e storicizzarlo è il contrario che riproporlo artificialmente, quando non ha più motivo di esistere, come elemento di contrapposizione fra le forze politiche.
“Il sistema politico italiano –ha scritto Francesco Barbagallo nella einaudiana Storia della Repubblica- si costituisce intorno a questo peculiare equilibrio tra un partito destinato ad esprimere a lungo il centro motore del governo del paese e un partito di opposizione abilitato a un ruolo di rappresentanza sociale e di iniziativa politica ma non di governo del paese”. In maniera diversa il dato era stato felicemente riassunto nella notissima formula della conventio ad excludendum. Ma la parola conventio può indurre in errore: non si tratta in realtà di una convenzione, di un accordo stipulato, in un momento determinato, fra le forze della maggioranza, ma di un dato di fatto: la formula cioè ha valore non costitutivo ma “ricognitivo” di una realtà esistente, legata al quadro internazionale uscito dalla seconda guerra mondiale. Fra le forze di maggioranza e di opposizione c’è come un fossato invalicabile rappresentato da due opposti riferimenti internazionali: le forze di governo fanno riferimento all’area occidentale, di influenza americana; l’opposizione guarda all’Unione sovietica alla quale il comunismo italiano è unito dal “legame di ferro” teorizzato dallo stesso Togliatti.
Di qui la nota “doppiezza”, che caratterizza il partito comunista -una formula anche questa teorizzata da Togliatti-: il partito accetta e difende gli istituti della democrazia ma non esclude in linea di principio la via della rivoluzione per la costruzione della nuova società socialista; la spinta rivoluzionaria è forte e diffusa alla base del partito.
Perciò non vi è coincidenza, per riprendere una acuta osservazione di Giovanni Sabatucci, fra "l'area della forze politiche presenti nelle istituzioni rappresentative (area della rappresentanza) e quella delle forze legittimate a governare (area della legittimità). Gli spazi del ricambio politico sono di conseguenza limitati entro l'area della legittimità.
Ed ecco allora la formula proposta dal politologo Giorgio Galli: il “bipartitismo imperfetto”. Il confronto è di tipo bipartitico ma fra i due schieramenti, che si confrontano in parlamento e nel paese, non esiste fungibilità di ruoli.
Ma già nella fase degasperiana un altro elemento, antitetico, e in certa misura complementare, alla conventio caratterizza il sistema politico: si tratta della dinamica per “l’attuazione della costituzione”. L’intreccio fra queste due dinamiche è stato acutamente posto in luce da Francesco Bonini nella sua Storia costituzionale della Repubblica: “Se la prima ‘regola’ di fatto esclude il Pci (e in una primo tempo anche il PSI) dall’area di governo, la seconda recupera questi partiti a pieno titolo anche se in modo processuale, declinando al futuro il loro pieno inserimento non tanto nel gioco costituzionale quanto nell’ area di governo. Si crea così una situazione ‘duale’, una sorta di ‘doppio movimento’, di inclusione e di esclusione, che segnerà poi tutta la successiva storia costituzionale, fino alla fine degli anni Ottanta”.
La dinamica di attuazione della costituzione si sviluppa, come si sa, a due livelli: il primo tende alla concreta attuazione del diritti sociali affermati dalla Costituzione; il secondo porta alla creazione degli istituti previsti dalla Costituzione medesima, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura e Consiglio nazionale della economia e del lavoro e più tardi regioni.
E’ su queste premesse che si sviluppa il sistema politico italiano prima con il passaggio dal centrismo al centro sinistra e poi con la esperienza della solidarietà nazionale.
Un altro elemento va segnalato: la nascita del secondo governo organico di centro sinistra nell’estate 1964, dopo che il primo era caduto per un contrasto fra i partiti di governo sul tema del finanziamento della scuola privata, è segnata dalla vicenda del “Piano Solo” del generale De Lorenzo. La vicenda costituisce il segnale inequivocabile dello spostarsi della opposizione alla apertura della maggioranza di governo alle forze di sinistra sul terreno di una azione estranea ed ostile al quadro costituzionale e parlamentare: compaiono così sulla scena quei “poteri occulti” che con una utilizzazione spregiudicata di settori dei servizi di sicurezza condizioneranno gli ulteriori sviluppi della storia repubblicana.
La risposta politica, fondata come si è detto sulla espansione del centro, era l’unica possibile ma era anche per sua natura debole a livello di governo.
La sfida più dura è quella che viene dalla società .
Lo sviluppo economico ha favorito il formarsi di una più larga e più esigente classe media; l’estensione della istruzione contribuisce a dare al mondo giovanile nuova consapevolezza; il crescente inserimento delle donne nel mondo del lavoro esaspera la coscienza di una condizione di subalternità troppo a lungo subita; il venir meno del clima di repressione favorisce l’estendersi delle rivendicazioni della classe operaia. La società è in fermento e i partiti stentano a interpretare le nuove domande, le quali si esprimono nei movimenti che emergono come nuovi soggetti politici a fianco e, presto, contro i partiti
Non si può stabilire un rapporto di discendenza diretta fra movimenti e terrorismo. I movimenti esprimono, anche se in forme confuse e spesso contraddittorie, esigenze reali: è piuttosto la mancanza di risposte politiche che favorisce il passaggio al ciclo del terrorismo.
Sotto la spinta della protesta le conquiste del Welfare state assumono in Italia forme assistenziali che creano a loro volta spazi di lottizzazione e di corruzione con una spinta crescente ad una spesa pubblica incontrollata.
La modifica dei regolamenti parlamentari nel 1971 sancisce e certifica un processo avvenuto: delle due linee di tendenza che sin dall’inizio hanno caratterizzato il sistema politico italiano la conventio conserva un suo valore formale (ma solo ormai per breve tempo) e comporta l’esclusione dei comunisti dal governo; ma la linea della attuazione della Costituzione che ha favorito la progressiva estensione del centro coinvolge ormai a pieno titolo tutti i partiti dell’arco costituzionale e si esprime nella “centralità del Parlamento”: di un Parlamento tuttavia che è ormai accomunato al governo da una sostanziale impotenza, e costretto di fatto a un gioco di rimessa con risposte spesso tardive, talvolta demagogiche e raramente risolutive ai problemi del Paese.
Questo tragico episodio pone un duplice problema storico. Anzitutto quello di capire quanto e come quel filo nero nella storia della Repubblica intessuto per decenni da poteri occulti, servizi segreti deviati, rotture della legalità costituzionale, anche da parte di organi e istituzioni statali che quella legalità avrebbero dovuto tutelare, si intrecci con il caso Moro. Non credo che si debba parlare per questo di "doppio stato", adottando la formula usata con frutto da Ernest Fraenkel per il regime nazista. Si rischia con questa formula di mettere quasi sullo stesso piano e dare lo stesso peso a tutto quanto si è svolto alla luce del sole su binari pienamente costituzionali e a quanto si è svolto nell'ombra, al di fuori o contro la Costituzione. Ma esiste un debito di verità verso Moro che è anche un debito di verità verso la storia del Paese.
Il secondo problema storico è quello di una valutazione equilibrata e non funzionale alle scelte politiche successive dei risultati della solidarietà nazionale. Non ostante tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni la solidarietà nazionale ha favorito il processo di legittimazione delle forze politiche. E' indubbio che il coinvolgimento dei comunisti nella maggioranza rappresentò un forte elemento di tenuta del quadro democratico, nei giorni drammatici del sequestro Moro. Ma l’esclusione dall'orizzonte di quella esperienza di ogni problematica di tipo istituzionale ha limitato le potenzialità positive, implicite nel processo di legittimazione reciproca. In realtà questo problema non fu posto allora con chiarezza da nessuno dei protagonisti, né dalle forze politiche partecipi della esperienza di solidarietà, né dagli oppositori: la vivace polemica, contestuale alla solidarietà nazionale, contro l'accordo fra "le due chiese" rimase di tipo ideologico e non giunse mai a individuare le condizioni istituzionali di una democrazia non consociativa.
Il limite entro il quale tutte le forze politiche sono rimaste negli anni della solidarietà è quello di non aver visto che la democrazia dei partiti, realizzando quella nuova ed ampia aggregazione delle forze politiche, toccava un suo punto limite oltre il quale avrebbe avuto bisogno di un salto al di là della dinamica tradizionale della aggregazione al centro.
Ecco dunque il senso della formula “sviluppo incompiuto”: sviluppo c’è stato, sviluppo reale anche se segnato da tante contraddizioni della democrazia italiana; ma incompiuto perché al di là di esso si apre la necessità di una transizione ancora in corso (o infinita?).
Ma è “democrazia senza patria”?
Ecco il tema della cittadinanza: anche per esso proporrei la formula di uno sviluppo incompiuto.
La Costituzione ha creato le condizioni di una cittadinanza democratica.
Ma abbiamo assistito poi a un paradosso: normalmente il senso della cittadinanza e l'identità collettiva ad esso connessa si rafforzano in regime democratico; l'esercizio dei diritti civili, politici e sociali consolida la coscienza di una appartenenza comune. Nel nostro paese invece dopo cinquant' anni di democrazia l'identità nazionale è entrata in crisi. Silvio Lanaro ha parlato addirittura di "snazionalizzazione", Gian Enrico Rusconi ha avvertito che "una nazione può cessare di esserlo".
Negli stati democratici il senso della cittadinanza si fonda oggi sulla consapevolezza vissuta dei cittadini di essere titolari di diritti e di doveri nei confronti della comunità sulla base di valori comuni e condivisi che sono quelli espressi dalla costituzione. Si fonda perciò su quel "patriottismo della Costituzione" per usare l'espressione di Habermas, che è negli stati del nostro tempo l'unica forma possibile di identità collettiva democratica.
E' appunto questo tipo di identità collettiva che è debole e incerto nel nostro paese; la sua crisi travolge anche il sentimento dei dati comuni naturali -la lingua, la storia, le tradizioni- così da dare spazio a identità particolaristiche dietro le quali si nascondono di fatto precisi interessi economici.
Perché questo è avvenuto?
Il ruolo dei partiti su questo stesso terreno è contraddittorio: essi di fatto nel momento stesso in cui pongono le premesse, nella Costituzione, di una cittadinanza democratica di tutti gli italiani, contribuiscono a formare forti identità di parte, radicati sentimenti di appartenenza partitica, che sovrastano il sentimento di una appartenenza comune. In studi recenti di storia dei partiti è ormai la forma partito e il loro modo di essere che emerge in primo piano: si studia la presenza sociale dei partiti di massa, le loro "liturgie", le iniziative in tema di solidarietà sociale. Queste iniziative si configurano in maniera assai diversa nel mondo comunista e nel mondo cattolico ma hanno in comune l'intento e l'effetto di creare identità collettive compiute e distinte.
Questa tendenza, che si manifesta fin dall'inizio, caratterizzerà poi per un lungo tratto la storia della Repubblica e sarà un forte elemento frenante agli sviluppi di un senso di appartenenza democratica alla base del paese.
Dobbiamo stabilire per questo una sorta di continuità settantennale fra il regime fascista a partito unico e la stagione repubblicana pluripartitica? Non credo: proprio la realtà democratica del pluralismo introduce un elemento forte di discontinuità e di rottura. I partiti hanno contribuito efficacemente, non ostante tutto, all'inserimento nella vita democratica di grandi masse popolari. Attraverso la militanza o l'appartenenza ai partiti gli italiani hanno esercitato i loro diritti politici e sociali. I partiti hanno contribuito a radicare la Costituzione e, bisogna dirlo, soprattutto i partiti di sinistra: la condizione di opposizione ha comportato un costante richiamo ai valori della Costituzione e a quegli istituti garantisti della Costituzione che inizialmente la cultura della sinistra, nell’Assemblea costituente, aveva osteggiato. Ma è rimasta debole e incerta, per non dire inesistente, la coscienza di una unitaria identità nazionale, di una comune cittadinanza democratica. La storia è fatta anche di queste contraddizioni.
E qui entra in campo il tema, sul quale pure qualche studio è stato avviato, della formazione alla cittadinanza, tentata e non realizzata nella storia della Repubblica: dalle proposte della Commissione alleata di controllo, istituita nel novembre del 1943, che aveva al suo interno la sottocommissione presieduta dal pedagogista americano, Carlton Washburn, che si pose il problema della rieducazione alla democrazia del popolo italiano, fino alla istituzione della educazione civica nelle scuole ad opera del ministro Moro nel 1958.
Impossibile riassumere. Vorrei solo sottolineare il progressivo slittamento dalla iniziale concezione dell’americano, che concepiva l’educazione alla democrazia come educazione all’esercizio della responsabilità e della iniziativa personale, fin dalla prima infanzia, al piano di un dibattito ideologico sul modo di intendere la democrazia, sugli spazi della religione, sull’insegnamento della storia. Con l’effetto che l’educazione civica o non è stata insegnata affatto o è diventata campo di divisione ideologica.
Ha quindi finito col prevalere l’idea di una scuola neutra che ha portato a un depotenziamento della funzione formativa della scuola.
Quel patrimonio di esperienze, quella riserva morale di solidarietà, che gli anni della guerra avevano accumulato nel Paese, e che fanno dell’8 settembre, a mio giudizio in contrasto con la storiografia revisionista, non il termine finale dell'identità nazionale, ma il punto di partenza di una nuova identità democratica, non è andato perduto, ha efficacemente contribuito a mantenere nel Paese vivo un tessuto di tolleranza, perfino all’interno delle famiglie, ma non ha potuto tradursi in maturo senso di cittadinanza e di appartenenza comune.
Dunque anche qui cittadinanza incompiuta: potenzialità ben presenti nella Costituzione rimaste inespresse. Ma anche qui sviluppo reale e non deserto che consenta di parlar di una democrazia senza patria.
Un cenno appena all’ultimo tema : la secolarizzazione.
Perché secolarizzazione incompiuta?
Incompiuta non nel senso di non essere stata abbastanza radicale, incisiva distruttiva della religione tradizionale degli italiani (lo è stata fin troppo non solo nei confronti della religione ma di ogni tavola di valori: si ricordi la denuncia di Pasolini nel famoso articolo sulla “scomparsa delle lucciole”) ma nel senso di non aver dato luogo, nel momento stesso e in connessione con il logoramento del tessuto religioso tradizionale, dovuto allo sviluppo economico e ai ben noti fenomeni di emigrazione interna, al formarsi di un tessuto etico condiviso da laici e cattolici.
E qui il discorso investe in pieno il ruolo della Chiesa che è essenziale per il bilancio della storia della Repubblica.
La Chiesa cattolica nel periodo della guerra e dell'immediato dopoguerra ha dato un grande contributo alla ricostruzione morale del paese: l’intuizione di Chabod che nelle sue famose lezioni alla Sorbona sottolineava questo aspetto è stata pienamente confermata ed anzi arricchita dalla ricerche successive e in particolare da quelle svolte dall’ Istituto Sturzo. Direi che è superata l’immagine di un attendismo cattolico di massa. Ma poi nel quadro dello scontro ideologico con un comunismo, che assumeva le forme di una religione secolare, la Chiesa italiana è divenuta essa stessa movimento: una Chiesa movimento contro un partito chiesa. La secolarizzazione prodotta dal consumismo è arrivata inavvertita alle spalle, mentre la Chiesa era ancora impegnata nello scontro ideologico con il comunismo.
Credo che dovremo ripensare criticamente nel convegno in preparazione la vicenda del referendum del 1974 sul divorzio: una vicenda rimossa da parte cattolica perché scomoda e sbrigativamente archiviata da parte laica nella formula della conquista civile. La vicenda va studiata a mio avviso da due punti di vista: da un lato ha dimostrato il ruolo sostanzialmente subalterno, non solo del governo, ma del Parlamento stesso rispetto ai partiti e soprattutto ai movimenti -Lega per il divorzio e Comitato per l’abrogazione- che sono emersi come protagonisti primari della scena politica; dall’altro, con l’esito non previsto del referendum, ha posto in evidenza la scarsa comprensione da parte delle classi dirigenti e della Chiesa stessa dei processi di secolarizzazione che avevano investito la società italiana.
Mi pare in proposito significativa l’osservazione di Guido Formigoni nel suo volume L’ Italia dei cattolici: mentre i costituenti democratico cristiani erano riusciti a esprimere i loro valori in termini laici pienamente condivisibili e di fatto condivisi dalla altre forze politiche al fine di definire il patto costituzionale, l’operato della D.C. è rimasto legato, negli anni successivi, alla formula della “Italia cattolica”. Così il nesso fra fede e nazione appariva saldato e confermato nella sfera dell’ufficialità proprio mentre si andava logorando, per effetto dei processi di secolarizzazione, nella profondità del paese reale. Il richiamo della Chiesa e del partito D.C. al motivo tradizionale dell’ Italia cattolica ha reso più difficile rielaborare e ridefinire la distinzione fra sfera religiosa e sfera politica in senso democratico e pluralista e ha reso più difficile il formarsi di una nuova identità collettiva.
In questo senso appunto penso che si possa parlare di una secolarizzazione incompiuta e su questa base si pone la domanda di Gian Enrico Rusconi: Possiamo fare a meno di una religione civile? La mia risposta è: no, non possiamo farne a meno, purché la religione civile non sia intesa e definita sulla scia della tradizione di Rousseau, come religione secolare alternativa alle religioni positive, ma sia intesa invece come distillato di diverse fedi e ed esperienze etiche che costituisce il tessuto comune della convivenza, come la si intende, mi sembra, nella tradizione anglosassone, sulla base di quel concetto di laicità che la nostra Corte costituzionale a partire dalla sentenza del 1989 ha chiaramente definito: l' attitudine laica dello Stato non è legata ad una ideologia di cui lo Stato si fa portatore “ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”.
Il bilancio dunque, se così si può chiamarlo, pone in luce una serie di processi aperti che attendono sviluppo e compimento e che chiamano in causa, in un rapporto nuovo, al di là delle contrapposizioni del passato, la responsabilità e l’iniziativa culturale e politica di quelle stesse forze che hanno dato vita alla Repubblica italiana e alla sua Costituzione. Questa è, a mio avviso, nel suo significato più profondo, la sfida del 13 maggio.