Maurizio Fioravanti
Il tema che ci viene proposto è molto vasto. In effetti, la nostra esperienza repubblicana si svolge da oltre cinquant’anni, per un tempo ormai sufficientemente lungo, tale quindi da porre effettivamente il problema delle ‘memorie’, e quello dei ‘bilanci’, come recita il titolo del nostro colloquio. Le une e gli altri sono tutt’altro che irrilevanti nella storia di una repubblica, di ogni repubblica, e dunque anche della nostra. Le prime, le ‘memorie’, ci conducono a costruire una prima immagine, che è quella delle origini, e dunque dei contenuti delle volontà che congiuntamente hanno dato vita alla Repubblica, i secondi, i ‘bilanci’, ci conducono a costruire una seconda immagine, che è quella del cammino, e dunque dei significati che oggi è possibile attribuire a questi decenni di convivenza civile e politica. E’ inutile sottolineare la delicatezza di tutto questo, e quanto queste ‘immagini’ concorrano, sul versante delle ‘memorie’, come su quello dei ‘bilanci’, a dare o meno forza ad ogni forma politica, e dunque anche alla nostra Repubblica.
Io tratterò tutta questa problematica dall’unico punto di vista che conosco, che è quello della costituzione. Del resto, la Costituzione è alle origini della Repubblica, ed accompagna poi tutti i suoi successivi sviluppi : l’immagine che noi oggi possediamo della nostra Costituzione è dunque decisiva sia per il capitolo delle ‘memorie’, che per quello dei ‘bilanci’. Come sapete, negli ultimi anni, questa medesima Costituzione è stata messa sotto accusa. Si è parlato di Costituzione ‘contesa’, e di Costituzione ‘ferita’, ed hanno circolato immagini decisamente negative della nostra Carta, che tendevano a ricondurre ad essa mali e problemi, del resto evidenti, del nostro paese. Primo fra tutti, com’è noto, quello del potere dei partiti, che secondo queste interpretazioni la Costituzione avrebbe fondato e legittimato, con effetti poi in qualche modo destinati ad espandersi ed a prendere la via della degenerazione. Torneremo più avanti su questo punto.
Per ora preme dire che il nostro approccio a questi problemi vuole essere, per quanto possibile, esclusivamente quello dello studioso, che nel mio caso ha giusto al centro del proprio mestiere l’analisi e l’interpretazione delle costituzioni, e dunque anche di quella italiana vigente. Da questo punto di vista, la prima operazione da compiere, come vado sostenendo da tempo, è di sottrarre la nostra Costituzione ad un monopolio, che è quello della storia nazionale, come se la Carta del 1948 fosse esclusivamente un capitolo della storia dello Stato unitario italiano. Certo che lo è, perché introduce la Repubblica, perché segna la fine della dittatura. Ma accettare questa previa restrizione della nostra ottica nell’orizzonte della storia nazionale, racchiudersi tutti nella logica dei caratteri della storia nazionale, significa in un certo senso aver già preso la via della deformazione della realtà storica, e del significato della stessa Carta repubblicana. Non sto infatti a sottolineare quanto negli ultimi anni si sia lavorato su questi presunti ‘caratteri’ della nostra storia, magari per scoprire una specie di nostra vocazione, che sarebbe stata già evidente nella prima fase di vita dello Stato unitario, nei confronti delle politiche di stampo trasformistico e consociativo, che la Costituente avrebbe poi rinsaldato, con il grande patto dei partiti di massa, fino agli esiti degenerativi a tutti noti. Io sono ben lontano da simili teoremi storici, frutto - come ripeto - di logiche asfittiche, quasi ossessivamente dedicate a rintracciare le specificità nazionali, e soprattutto i mali nazionali, le loro radici di lungo periodo, ed infine magari il loro ricondursi alla Costituzione.
Qui è necessario davvero aprire le finestre, per lo meno sullo spazio costituzionale europeo, e cambiare aria, e restituire alla Costituzione la sua immagine vera e più adeguata alla realtà delle cose. Riassumo questa immagine in una formula : la Costituzione italiana del 1948 è una delle grandi Costituzioni democratiche europee del Novecento. Essa, prima ancora di appartenere alla storia italiana, appartiene alla storia della democrazia e della repubblica in Europa, che ha il suo avvio con la Costituzione di Weimar del 1919, prosegue con la Costituzione spagnola del 1931, passa attraverso le rinascite democratiche dopo le dittature, con la Costituzione francese del 1946, poi mutata nel 1958, con il Grundgesetz tedesco del 1949, fino poi alla Costituzione spagnola del 1978 postfranchista, ed a tutte le molteplici Costituzioni che si sono fatte negli ultimi anni dopo le cadute dei regimi dell’Est europeo. Ora, molti di questi paesi, come sapete, hanno a Nizza sottoscritto il Bill of Rights europeo, la Carta europea dei diritti fondamentali. Ma questa Carta non sarebbe stata neppure pensabile senza una sua fondazione, anche esplicita, come recita un celebre articolo del Trattato dell’Unione, sulle “tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri” della stessa Unione, e dunque sulla storia cui appartiene anche il nostro Paese, proprio grazie alla sua Costituzione.
Dunque, lasciamo alla politica quotidiana le sue polemiche, i suoi slogan, le sue immagini, della nostra storia e della nostra Costituzione, costruite su misura, per quella politica e per quella quotidianità. E pensiamo ad altro, a conservare e costruire un’altra memoria, un altro bilancio. Una volta compiuta questa operazione preliminare, saremo certamente in grado di leggere nel modo giusto i caratteri fondamentali della nostra Costituzione, che sono poi divenuti altrettanti caratteri della nostra Repubblica e della nostra democrazia. Ed insisto ancora : si tratta anche, nello stesso tempo, dei caratteri della democrazia in Europa, così come si è andata realizzando nella seconda metà del Novecento.
Da Weimar in poi, attraverso le tappe che abbiamo indicato, e dunque anche attraverso l’esperienza della Costituente italiana, le Costituzioni di cui parliamo hanno questo primo carattere : esse derivano da un deliberato popolare, da un’assemblea costituente a fondamento popolare, dal principio stesso di sovranità popolare. Come tutti sanno, non era così per le precedenti Carte dell’Ottocento, che si basavano sui diversi principi della sovranità dello Stato, o della nazione. Ma questo ritorno alla sovranità popolare nelle Costituzioni del Novecento, e dunque anche in quella italiana del 1948, non avviene in modo indistinto, ma all’interno di una certa concezione generale della democrazia che si trova mirabilmente espressa nel secondo comma dell’articolo primo della nostra Costituzione : “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Dunque, nessun dubbio, da una parte, sul fondamento popolare della costituzione, sulla appartenenza della sovranità al popolo, e dunque sulla necessità di ritrovare continuamente forme e modi di esercizio di quella sovranità che siano adeguati al proprio tempo, che siano forti e vitali, che ci richiamino continuamente alla fonte, alla origine, dell’esperienza politica repubblicana. E tuttavia, d’altra parte, la necessità che tutto ciò si esprima entro uno spazio definito dalla Costituzione, non solo nelle forme, ma anche nei ‘limiti’, voluti dalla Costituzione, come recita appunto il secondo comma dell’articolo primo della nostra Costituzione.
Qui siamo veramente al cuore del nostro problema : la democrazia europea della seconda metà del Novecento, e del nostro tempo storico, e dunque anche la democrazia italiana, vuole essere una democrazia piena, ma non per questo chiede di essere illimitata. Vogliamo ridurre tutto questo ad una formula ? Io direi così, con la massima chiarezza possibile : la democrazia che storicamente abbiamo non è una democrazia radicale, o popolare : è una democrazia costituzionale. Se noi non ci rendiamo pienamente consapevoli di questa differenza, che è il vero problema che abbiamo oggi, di fronte a noi, nei termini che subito dirò, noi rischiamo continuamente di rimettere in discussione quanto abbiamo conquistato nella seconda metà del secolo appena trascorso. E devo dire la verità : che qualche volta, leggendo qualche pagina della polemica politica, provo la sgradevole sensazione che le cose stiano davvero così, che quel rischio sia davvero attuale.
E veniamo allora al punto : nella democrazia costituzionale noi dobbiamo definitivamente sbarazzarci di un’idea probabilmente radicata in noi : che i rappresentanti del popolo sovrano possano disporre, in nome dello stesso popolo sovrano, dell’intero spazio civile e politico, entro cui operano i soggetti della democrazia. Non è più così, o così non dovrebbe più essere, perché ogni politica, anche quella democratica, deve avere i propri limiti. Ce lo insegnano proprio i nostri padri costituenti. Essi avevano infatti un’idea molto forte, ed alta, dei compiti della politica nella società, ed espressero anche questa idea nella costituzione : basti pensare al principio di eguaglianza, ed alla complessa scrittura del terzo articolo della nostra costituzione, che assegna alla Repubblica, e dunque in concreto ai soggetti della politica democratica, compiti molto ambiziosi, che riguardano la sfera del principio di solidarietà, della trasformazione della società a fini di giustizia. Ma quegli stessi uomini - ecco il punto - avevano anche sperimentato le dittature ed i totalitarismi politici. Essi non potevano non coltivare, accanto ad una concezione forte ed ambiziosa della politica, l’altra grande idea, solo apparentemente contraddittoria, che è certamente quella dei limiti della politica. Questa seconda idea-madre, che sta alla base della democrazia costituzionale, si trova espressa in un’altra norma-chiave della costituzione, il celebre articolo secondo : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Non si trattava di riscoprire il diritto naturale, ma di dare atto nella Costituzione che quei diritti non sono fabbricati dalle leggi dello Stato, che li possono solo ‘riconoscere’, come recita l’articolo, e non certo generare. Da qui tutto il resto : l’ammissione che anche i rappresentanti del popolo sovrano sono fallibili e l’istituzione del controllo di costituzionalità, destinato a giocare un ruolo crescente nelle nostre democrazie.
Ma c’è anche un ultimo aspetto da mettere in rilievo nell’ambito della nostra democrazia costituzionale. Concerne la problematica, da sempre tormentata, della riforma costituzionale, della attivazione del procedimento di revisione costituzionale. In una democrazia costituzionale, a differenza di una democrazia meramente legislativa, non possono non esservi limiti precisi alla revisione della costituzione, principii fondamentali, per loro natura sottratti al procedimento di revisione. Lo ha affermato più volte la nostra Corte Costituzionale, lo dice la stessa Costituzione, all’articolo 139, quando afferma che la “forma repubblicana” è sottratta al procedimento di revisione. E deve essere a tutti chiaro che la “forma repubblicana” non riguarda certo solo la figura del Capo dello Stato : è piuttosto quell’insieme di principii fondamentali e primari, che insieme costituiscono la forma politica scelta nel 1947, che insieme attribuiscono una certa identità alla nostra Repubblica. Sono questi principii contenuti nella prima parte della Costituzione ad essere sottratti al procedimento di revisione costituzionale.
Ovviamente, nulla è eterno in questa materia. Anche la Costituzione è pur sempre una norma giuridica, per quanto di specie del tutto particolare. Ma ciò che non è ammissibile è la confusione tra la riforma della Costituzione esistente, sempre possibile, ed anzi anche per me per molti versi auspicabile, e la creazione di una nuova Costituzione, che necessariamente deriverebbe dal mutamento delle norme-cardine della prima parte della Costituzione. Chi chiedesse davvero agli elettori, al popolo sovrano - non importa da quale parte politica -, una sorta di mandato a cambiare quelle norme, una sorta di legittimazione politica ad operare in tale direzione, dimostrerebbe prima di tutto di volersi collocare fuori dalle regole che disciplinano oggi la vita delle democrazie costituzionali in Europa. E la prima di queste regole è questa : che gli elementi di base, costitutivi della identità costituzionale di una certa Repubblica, non sono materia disponibile per la politica, sono al di là della linea entro cui operano i poteri della politica, delle maggioranze, delle rappresentanze politiche.
Due parole di conclusione. Il nostro paese non ha una storia costituzionale particolarmente densa e significativa. La Costituzione previgente, lo Statuto albertino, regolò solo in parte la vita politica dell’Italia liberale, e non seppe opporre alcun argine all’avvento del fascismo. La Costituzione repubblicana ha faticato non poco a divenire la norma fondamentale della nostra esperienza politica. All’inizio, soprattutto prima dell’istituzione della Corte Costituzionale, si insegnava, anche ai vertici dello Stato, che la Costituzione era in larga parte una specie di norma politico-programmatica, e non una vera norma giuridica. Ed in seguito si sono per lungo tempo lasciate inattuate parti decisive della nostra Costituzione. Oggi, in tema di ‘bilanci’, si può dire che un certo cammino è stato compiuto, e che la Costituzione è penetrata con sufficiente forza ed ampiezza nella vita politica del nostro paese. Ciò che però ancora è in dubbio è proprio l’aspetto da ultimo richiamato, quello della riforma costituzionale. Non sto parlando dei ben noti fallimenti della Commissione Bicamerale, ma di un problema più generale. Una costituzione non è forte perché resiste alla riforma, come qualcuno ha malinteso negli ultimi anni. Al contrario, la capacità di una costituzione di riformarsi in modo legale ed ordinato, secondo le procedure previste, è da considerarsi come una manifestazione di forza, e di salute, di quella medesima costituzione. La Costituzione più risalente nel tempo, quella federale americana del 1787, è anche, e non a caso, la Costituzione in assoluto più emendata, più riformata. E più in genere, si può affermare che una costituzione si riafferma proprio riformandosi, ed imponendo le sue regole alla riforma. Questo è il punto che pare essere ancora problematico oggi in Italia, che lascia riaffiorare le antiche fragilità, le antiche difficoltà a radicare nella nostra esperienza politica le regole costituzionali, e prima ancora la cultura costituzionale, ovvero la consapevolezza di possedere, come patrimonio comune irrinunciabile, una comune norma fondamentale. Speriamo che nessuno voglia approfittare di queste fragilità, e che a nessuno venga in mente, in questa situazione, di contrapporre in modo secco e diretto la volontà del popolo sovrano, in quanto espressa in una maggioranza politica, alla Costituzione, con le sue regole ed i suoi principii irrinunciabili, indisponibili. Sarebbe un clamoroso passo indietro rispetto a quella democrazia costituzionale di cui ho voluto discorrere questa mattina, rispetto a quel tipo storico di democrazia che ha saputo conciliare sovranità del popolo e primato della costituzione, e che proprio per questo motivo rappresenta il più prezioso frutto della seconda metà del Novecento, lasciato in eredità al secolo nuovo. Grazie.