Claudio Pavone
Dirò subito che il mio punto di vista è quello di un cultore di studi storici non di un costituzionalista o di un politico militante. D’altra parte proprio il Presidente dell’Associazione Salvatore Senese, ha accennato nella sua relazione iniziale a questa specie di messa in mora, oggi in atto, della storia e del desiderio di cancellarla.
Questo io credo che sia veramente una delle caratteristiche più negative di un dibattito pubblico che spesso poi si arrovella e si attorciglia intorno a questo tema, tutto al di sopra delle righe, del revisionismo, dell’identità nazionale esistente o inesistente e così via. Forse su questo si potrebbero dare due esempi subito, proprio legati al tema dell’origine della Repubblica e di come poi la Repubblica abbia vissuto per ormai più di mezzo secolo. Ad esempio io credo che molti di voi possano aver notato come la Repubblica Sociale Italiana, la Repubblica di Salò, stia diventando sempre più un punto di scarico per tutto il male del fascismo; sembra che tutto il male che ha fatto il fascismo all’Italia sia avvenuto dopo l’8 settembre del ’43 per colpa essenzialmente dei tedeschi perché altrimenti gli italiani da soli non si sarebbero comportati in quel modo, non avrebbero fatto nemmeno la persecuzione degli ebrei. Ad esempio in una indagine fatta dagli alunni di un liceo di Milano, molti nonni e padri alla domanda “quando è cominciata la persecuzione contro gli ebrei” hanno risposto: “dopo l’8 settembre”. Non erano né in malafede, né dei bugiardi patentati ma nella loro coscienza il mito della “bontà degli italiani” era entrata.
Questo io credo che sia un modo per cancellare il ventennale passato fascista. Come giustamente Fioravanti ricordava, accanto alla genealogia delle costituzioni democratiche del nostro secolo, esiste anche, ahimè, una genealogia dei fascismi e dei totalitarismi europei di cui il fascismo italiano era veramente il fascio primogenito, non solo Milano ma tutta l’Italia era un fascio primogenito.
Dimenticare questo è un modo, a mio avviso, di azzerare la memoria storica e di cavarsela a buon mercato rispetto a quel necessario esame di coscienza collettivo che non significa colpa collettiva - un criterio di per sé moralmente inaccettabile- ma il dovere che ha ogni popolo di riguardare il proprio passato con occhio critico per non sbarazzarsene troppo a buon mercato.
Va detto che i tedeschi che sono arrivati dopo di noi, per mille circostanze storiche, all’esame del loro passato, hanno finito con il sopra avanzarci di gran lunga. Esiste in Germania un dibattito meno polemico o, al contrario, circondato da cautele diplomatiche e di maniera, sul loro passato nazista. Un vero dibattito critico mosso da amore di una verità che deve indagare senza scrupoli tutti gli aspetti anche i più negativi dei passati regimi. Così non va nascosto che anche personaggi alti ed elevati possano aver avuto momenti chiamiamoli di debolezza, di opportunità, di opportunismo.
E’ di ieri o dell’altro ieri una lettera scritta al ministro Bottai da uno dei massimi storici non solo italiani ma europei, Arnaldo Momigliano. Si è sentito, con un sospiro di sollievo, anche lui!! Questo non è detto per amore della verità, è detto per una specie di qualunquismo retrospettivo che comporta il dire “gli uni equivalevano agli altri, piantiamola col fare distinzioni obsolete".
Proprio perché l’associazione che ha organizzato questa riunione è l’Associazione per le Memorie..” al plurale “.. della Repubblica”: è un plurale molto importante. Io credo che la prima cosa da ricordare da un punto di vista storico ( non c’è bisogno di essere professori di storia) è che una cosa è fare una storia che dia spiegazione di tutti gli aspetti positivi e negativi del passato, ognuno poi giudicherà secondo i propri criteri etico politici, e questo è giustissimo; altra cosa è parlare, per esempio, di unificazione della memoria. A me sembra una aberrazione che nasconde un desiderio, di nuovo, di “pari e patta” storiografico, secondo un criterio di equiparazione delle parti dimenticando che se noi siamo oggi qui a parlare liberamente è perché ha vinto una delle due parti e che la pietà che si deve ai morti, a tutti i morti, è contraddittoria con la tendenza di spogliarli delle individualità che ebbero da vivi. Qui sta il rispetto vero dei morti; anche un brigatista nero ha diritto nella tomba ad essere considerato un brigatista nero, non ha nessun senso che la sua memoria si unifichi con quella di un resistente, di un antifascista, di un partigiano.
E’ in questo modo che la storia, bandita come grande visione e complicata e rischiosa esperienza da praticare, ritorni poi in maniera surrettizia come una specie di sanatoria generale. Questa tendenza l’abbiamo rivista in questi ultimi episodi, le polemiche suscitate dal bellissimo discorso del presidente Ciampi a Cefalonia. Effettivamente l’episodio di Cefalonia non era stato a sufficienza ricordato, ma non solo per colpa della storiografia di sinistra. Ci sono mille motivi per spiegare questa scarsa attenzione ed è inutile qui ripercorrerli; non dobbiamo però dimenticare che sul libro di Roberto Battaglia un lungo brano su Cefalonia c’è anche con una cartina, con le frecce dei movimenti delle truppe.
Cosa analoga si potrebbe dire degli internati militari italiani in Germania che sono tornati tardivamente ad essere oggetto di storiografia. Dico queste cose per ricordare come la polemica che si è concentrata sul tema troppo fortunato della “morte della patria”, è una polemica che non farebbe più capire, ove la patria fosse veramente morta, cosa abbiamo fatto in questo mezzo secolo, dove abbiamo vissuto, cosa sia la Repubblica, e poi, ammesso che sia stata sanata questa morte, “dopo tre giorni risuscitò da morto”, come si dice di Gesù Cristo, non si sa quando sia resuscitata perché proprio la resistenza e la costituzione sono da questo indirizzo considerate cose che o, nella migliore delle ipotesi, non sono giovate a sanare la morte della patria o, nella peggiore, hanno addirittura peggiorato la situazione come, appunto, uno degli autorevoli editorialisti del Corriere della Sera in un convegno qualificò la Costituzione “il peccato originale della Repubblica Italiana” e non si riferiva solo alla prima parte che è la più attaccata, si riferiva alla Costituzione in generale.
Ecco, allora penso che il problema anche da un punto di vista di discorso storico più generale, è proprio quello di riconsiderare, senza parrocchie, senza tabù, il rapporto che c’è fra il fascismo del ventennio e quello di Salò, la resistenza, la Costituzione e poi la Repubblica. Non è un percorso lineare, glorifico e quando è stato presentato in questo modo, non ha certo giovato alla causa che voleva difendere; è un percorso che va ricostruito criticamente, inserendo tutti i fattori europei a cui giustamente accennava Fioravanti anche nella ispirazione della Costituzione, utili per far capire come antifascismo, resistenza e Costituzione stavano in una delle possibili strade che poteva seguire la storia d’Europa di questo tormentato secolo e che, per fortuna di tutti, anche per coloro che l’avevano osteggiata, ha prevalso. Si tratta di ritrovare un percorso italiano e allo stesso tempo considerarlo, non avulso da un cammino che erano stati costretti a percorrere tutti i popoli investititi da regimi totalitari o per autonome involuzioni o a seguito delle occupazioni tedesche e italiane durante la seconda guerra mondiale.
Quello che ha detto Fioravanti a proposito della discussione sulla Costituzione lo condivido pienamente. Mi sembra che nello spirito della sua relazione ci fosse una critica a quello che in realtà avviene oggi. Quando così spesso, una specie di giacobinismo di destra viene presentato come vero rispetto della volontà della gente. Mentre il giacobinismo per alcune correnti storiografiche è diventato una bestia nera perché avrebbe generato tutti i malanni di due secoli, in realtà poi la destra italiana, per ignoranza o malafede strutturali, parla da un punto di vista che si potrebbe proprio chiamare giacobinismo di destra.
Ora, perché dalla resistenza invece è nata la Costituzione democratica che ha illustrato Fioravanti? Innanzitutto per questa capacità di collocarsi in un profilo, un alto profilo di storia non solo costituzionale, ma civile, democratica europea, cosa della quale ovviamente non tutti i resistenti in carne ed ossa spesso giovani o giovanissimi, potevano avere una consapevolezza di carattere “scientifico”.
Questo non per dire che esiste una specie di anima collettiva di cui i singoli individui sono agenti passivi, ma perché proprio i grandi fenomeni storici hanno questa capacità di convogliare, di condurre verso soluzioni politicamente e istituzionalmente valide anche coloro che possono soggettivamente essere intervenuti per mille motivi che è giustissimo andare ad indagare, come si è cominciato a fare, e che vanno tenuti sempre presenti come sottofondo del valore oggettivo che poi il movimento ha avuto. Allora se noi consideriamo, come è stata talvolta considerata, la resistenza come un blocco omogeneo, compatto, senza contraddizioni al suo interno, non possiamo nemmeno capire bene (qui i costituzionalisti possono fare un discorso molto più tecnico e preciso), non possiamo nemmeno capire come fosse così forte nei padri costituenti l’esigenza, proprio perché si sentivano diversi ed erano stati diversi nella stessa lotta di liberazione, di creare, un sistema giuridico, un ordinamento, che permettesse loro di continuare ad essere diversi, perché credo che nessun comunista allora volesse diventare democristiano o viceversa (per indicare i due poli principali) ma che i due poli essenziali, ma che pur continuando ad essere diversi, non dovessero, ed uso una espressione un po’ forte, spararsi addosso.
Non va dimenticato che l’Italia usciva da una guerra civile, da una lotta di liberazione che era costata migliaia di vittime sia verso l’invasore straniero, che verso l’oppressore interno. L’invasore straniero, fascista e nazista, a sua volta, non era il popolo tedesco in quanto tale perché nessun popolo è buono o cattivo di per sé, né l’italiano né il tedesco. Proprio perché si usciva da una situazione in cui si era visto come le controversie politiche potessero diventare motivo di lotta armata o di lotta di grandissime tensioni e sofferenze, bisognava impegnarsi a fare qualche cosa che bene o male - dico bene o male perché poi la perfezione non è di questo mondo e non era nemmeno dell’assemblea costituente italiana - ma insomma, che bene o male permettesse per il futuro di continuare a misurarsi, scontrarsi in maniera anche aspra come poi è avvenuto in molti anni della Repubblica.
Può sembrare oggi quasi ovvio, ma a quell’epoca lo era un po’ meno, che vi può essere una accanita lotta politica che non comporti l’uso delle armi. Detta così può sembrare una estrapolazione ad effetto, però in realtà, all’uscita da una guerra mondiale che era costata 50 milioni di morti, la cosa aveva un senso profondissimo nella coscienza degli italiani ma non solo degli italiani. Fenomeni analoghi sono avvenuti in Francia, e sono avvenuti in forme specifiche nella stessa Germania e così via. Una delle critiche che si sente fare alla Costituzione è che è frutto di compromessi. Certo, esistono compromessi terra, terra e compromessi elevati; nella complessa operazione che devono compiere i costituenti di un paese quando pensano di costruire una costituzione, di trasformare i valori in norme. Questa è una operazione talmente delicata che le norme talvolta possono essere formulate solo con accordi politici di compromesso nel senso elevato del termine. Ovviamente ognuna delle due parti avesse, in ipotesi, potuto scrivere la costituzione a totale suo gradimento l’avrebbe forse scritta in maniera un po’ diversa. Ma il punto stava proprio nella volontà e nella necessità di trovare delle forme giuridiche che potessero permettere la convivenza nell’ambito dei restaurati diritti civili e politici estesi a tutti, compresi gli ex fascisti, ben inteso, che mascherandone il nome ebbero subito la possibilità di ricostituire il loro partito, che riebbero presto tutti i loro diritti civili, che furono amnistiati con strabocchevole generosità e che quindi anch’essi vennero a fruire dei vantaggi che, se fosse stato per loro, mai avremmo potuto godere nel nostro paese.
Certo, e i giuristi lo sanno meglio di me, c’è tutto un periodo di congelamento costituzionale per cui poi il “disgelo” che è avvenuto negli anni successivi con la formazione del Consiglio superiore della Magistratura, della Corte Costituzionale e delle regioni. La Corte è l’organo che scaturisce dall’esigenza, che ha ricordato Fioravanti, di sottrarre alcuni diritti fondamentali alle mutevoli maggioranze parlamentari. Questo è il senso della Corte Costituzionale.
La differenza fra norme costituzionali e norme ordinarie è quella in cui si concretano tecnicamente molte delle cose così rilevanti che ha detto Fioravanti.
Ricordo un giurista, grandissimo e fiorentinissimo come Piero Calamandrei, che nei primi anni dopo la costituzione, quando c’era reticenza ad applicarla e fu formulata la distinzione fra le norme programmatiche e quelle dispositive, disse una volta in un convegno “ quando parlo della Costituzione in pubblico mi sento trattato come si trattavano una volta i vegetariani”, cioè come una persona bizzarra, che ha una sua fissazione, però poi la gente sa che i vegetariani sono appunto una piccola e non influente minoranza.
Questo cammino di attuazione della Costituzione, con i ritardi, anche i sabotaggi, le incertezze che si sono avute sarebbe un capitolo cui qui si può solo accennare ma che è importante proprio per poter meditare sul senso che oggi può avere in Italia una eredità che, ripeto, non è eredità da sbandierare come una cosa che accomunava a priori tutti gli italiani. Fu per gli italiani un momento alto nella loro storia perché seppero dividersi in base a ideali diversi anche quelli che stavano dalla stessa parte antifascista avevano opinioni diverse sul futuro dell’Italia. Fu un momento alto nel senso che dalle grandi crisi si esce avendo dei valori comuni da attuare con delle norme che permettono la convivenza. Fra persone affezionatissime alle proprie convinzioni e ai propri principi generali, alle proprie visioni finali della società. Naturalmente in mezzo secolo ne sono successe tante che poi ognuno è venuto cambiando, modificando, adattando anche i suoi principi generali e ideali iniziali. Ma oggi molto spesso compare la tendenza a considerare un pericoloso post illuminista chiunque parli di un futuro, che non sia soltanto una garanzia a livello più basso del presente, uno che mediti forzature totalitarie.
Pensare che il mondo si possa cambiare in meglio perché purtroppo sappiamo che il peggio non è mai finito, pensare che il mondo abbia senso, un senso che dà valore anche alla politica viene considerata una cosa assurda o il residuo di una fede nel progresso. Sembra che gli apologeti dell’antico regime in definitiva avessero ragione, perché i famosi principi dell’89 (io avendo fatto il liceo in periodo fascista li sentivo sbeffeggiare dai miei professori), oggi sembrano di nuovo sbeffeggiabili perché sono frutto di quell’illuminismo da cui deriverebbero tutti i guai di due secoli di travagliatissima storia dell’Europa e muovendo dalla pedana dell’Europa, di storia mondiale.