Questa giornata è destinata a concludersi con l'elezione del presidente della consulta dei soci collettivi dell'Associazione. Tra tali soci, un posto di rilievo spetta agli enti locali che, anche nella prospettiva dell'assetto federalista della Repubblica, rappresentano gli snodi essenziali della cittadinanza e del sentire repubblicano; il luogo primo ove si forma, si consolida e si sviluppa il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale, alla sua storia e alla sua identità; la dimensione immediata nella quale il cittadino incontra lo spirito civico , l'etica civile, le memorie che l'alimentano , il senso di una collettività che nel presente elabora il passato e si proietta verso il futuro.
Non a caso, tra i principi fondamentali del patto repubblicano scritto nella Costituzione, v'è il principio autonomistico, il riconoscimento del ruolo delle autonomie locali e l'impegno a promuoverne e valorizzarne la funzione come strumento di democrazia, di coesione nazionale, di ordinata convivenza, in contrapposizione con l'ordine autoritario, centralistico e ferocemente antiautonomista perseguito dal fascismo.
Il cammino per realizzare questa promessa e questa trama è stato lungo e accidentato, non privo di errori e battute d'arresto; ma gli approdi cui siamo giunti, e che vogliamo consolidare e perfezionare, non potrebbero essere realmente intesi se si dimenticassero i percorsi, attraverso cui quel cammino si è snodato, e il punto di partenza rappresentato da quel formidabile laboratorio d'idee che fu la Resistenza, prima, e la Costituente ,poi, e che trovò un momento forte di coagulo nella Costituzione.
Ecco perché è parso opportuno cogliere l'occasione di un adempimento statutario della nostra Associazione per una giornata di riflessione sull'esperienza repubblicana, sui suoi bilanci e sulle sue memorie.
Viviamo un tempo di grandi e profondissime trasformazioni, indotte da una mutazione epocale del mondo : trasformazioni nei modi di produzione e di scambio, nel rapporto tra la politica e l'economia, nelle comunicazioni e nella formazione del simbolico, nel costume e nell'immaginario collettivo, negli assetti geopolitici e nelle forme stesse di configurazione del potere politico che vede ogni giorno di più deperire oggettivamente lo Stato-nazione, lo strumento cioé che nell'evo moderno e contemporaneo era stato forgiato per dare risposta alle esigenze di convivenza collettiva, di sicurezza e, nelle esperienze più avanzate, di progresso civile e sociale. A questi fattori, che investono tutte le democrazie e le scuotono nel profondo, si aggiunge - nel nostro paese- una crisi politico-istituzionale che dura da dieci anni ed i cui tentativi di soluzione s'impigliano spesso in un atteggiamento destruens di settori ragguardevoli della società o del mondo politico o sono ostacolati, quando faticosamente giungono in porto, da preconcetti rifiuti, gridati assai più che argomentati.
La conseguenza di tutto ciò è una crisi d'identità del cittadino, delle sue coordinate di appartenenza e di cittadinanza, un offuscarsi delle prospettive di destino comune, un'incertezza ed un senso d'insicurezza globale che va oltre i timori indotti dal rischio di eventi specifici e affonda le proprie radici nel sentimento di una perdita di senso delle coordinate di valore che fondano l'identità collettiva e di una destrutturazione del filo che unisce passato e presente, memoria e progetto, mutamento e identità.
I responsabili delle comunità locali sono i primi ad essere chiamati a confrontarsi con questa crisi, ad offrire risposte , a ritessere la trama di una storia dalla quale trarre elementi costitutivi di una bussola che consenta di vivere non passivamente le trasformazioni e il nuovo e di trovare lo spazio , dinanzi alle une e all'altro, per un'azione cosciente e volontaria nutrita di riferimenti ideali e di consapevolezza storica.
Gli ultimi dieci anni hanno espresso come non mai un'esigenza di politica-storia, e cioè l'esigenza di una politica che sapesse porsi all'altezza dei problemi che ho appena evocato. V'è certo chi ha avvertito questa esigenza; ma nel complesso, e per un serie di ragioni diverse che qui non indago, il messaggio complessivo della politica, mai come in questo decennio così ossessivamente presente nei mass-media, non è mai stato così paurosamente privo di senso storico, appiattito o sminuzzato sul frammento, dimentico dell'insieme.
Ho vissuto questi dieci anni da parlamentare. Troppe volte dai dibattiti sembrava che la Repubblica fosse appena nata o addirittura stesse nascendo allora; troppe volte pareva che un cammino faticoso e difficile, che pure v'era stato ed aveva trasformato il paese, il suo sentire, le sue strutture e le sue istituzioni, non fosse mai stato percorso; che prima dell'oggi non esistesse nulla se non malcostume e disfacimento; che la Repubblica dovesse costruirsi ora, dal nulla o magari da mani pulite o dai referendum, eventi certo importanti ma dei quali non si coglieva che erano stato resi possibili, essi stessi , da una storia ed uno sviluppo della Repubblica nel cui percorso andavano contestualizzati ed apprezzati, inquadrati e ridimensionati come momenti di correzione di alcuni dei tanti problemi che la storia repubblicana aveva fatto emergere o non aveva saputo risolvere, invece di essere considerati come eventi fondativi di una nuova repubblica senza storia e senza un popolo che non fosse una miriade d'individui atomizzati.
La stessa crisi della forma di governo parlamentare puro, progressivamente manifestatasi in questi anni , è stata presentata da settori ragguardevoli delle forze politiche come l'emblema di un paese senza storia e senza identità, da rimodellare dalle fondamenta nelle sue istituzioni, sottraendosi all'onere di un esame critico della genesi di quella crisi, che trova bensì le sue radici in una scelta della Costituente ma che in quella stessa sede era pur stata lucidamente avvertita come possibile e per scongiurare la quale era stata impegnata la giovane repubblica . Infatti, quando l'Assemblea costituente scelse la forma del governo parlamentare puro, essa accompagnò tale scelta con l'approvazione dell'ordine del giorno Perassi che impegnava all'adozione di meccanismi di razionalizzazione idonei ad assicurare " la stabilità dell'azione di governo" ed a scongiurare " le degenerazioni del parlamentarismo". Tali correttivi non vennero peraltro adottati perché per decenni la vita democratica della Repubblica si svolse passabilmente nel quadro della forma di governo parlamentare, il cui funzionamento venne assicurato dal sistema dei partiti quale concretamente configuratosi durante gli anni cinquanta: in particolare, dall'egemonia esercitata dalla D.C. sulle forze di governo e, rispettivamente, dal PCI su quelle di opposizione. Questi due blocchi, pur fieramente contrapposti, risultavano tuttavia solidali nella volontà di far vivere la giovane Repubblica e le sue istituzioni e, attraverso di esse, il patto stipulato con la Costituzione, sul terreno della cui attuazione essi spostavano lo scontro anche aspro che li opponeva.
Non è un caso, del resto, che nei primi quattro decenni della storia repubblicana, le occasioni in cui l'opposizione fece ricorso all'ostruzionismo parlamentare possono contarsi sulle dita di una mano e sempre in connessione con grandi battaglie di respiro storico che dividevano il paese e coinvolgevano grandi masse di popolo, sì che, in tali occasioni, la vicenda parlamentare diveniva realmente specchio di uno scontro che attraversava la nazione nel profondo esaltando il ruolo del parlamento come luogo di rappresentanza di una comunità, sia pure divisa da grandi idealità, dal cui aspro confronto peraltro sarebbe gradualmente emerso un sentire comune. Ben diversamente da quanto le cronache parlamentari ci mostrano oggi, quando il ricorso ad un selvaggio ostruzionismo parlamentare è stato bagatellizzato, ridotto a pratica di routine anche per provvedimenti minuti, incomprensibile alla stragrande maggioranza dei cittadini che ne trae solo motivo di discredito per il sistema politico-istituzionale nel suo complesso, ragione di distacco dal sistema dei partiti e della rappresentanza, alimento alla spinta a rifugiarsi nel particolare ed alla disgregazione di un'identità collettiva.
Certo, lo schema sperimentato negli anni cinquanta e sessanta entrò in crisi sul finire degli stessi anni sessanta, ma quando l'accresciuta forza del PCI pose in modo acuto il problema dell'impossibilità per tale partito di ambire alla guida o alla partecipazione al governo, a causa della conventio ad excludendum , la soluzione fu trovata accrescendo il ruolo di governo del parlamento attraverso la modifica dei regolamenti parlamentari ed instaurando la fase della cd " centralità del parlamento". Solo quando questa linea non funzionò più , la formula costituzionale sino allora sperimentata entrò in crisi e la centralità del parlamento divenne lo strumento di operazioni di sottogoverno guidate da gruppi di pressione secondo linee degenerative.
E' certo responsabilità delle maggiori forze politiche non avere allora raccolto l'ammonimento di Perassi ed aver tardato nell'innovazione istituzionale; ma solo una profonda sordità storica può spiegare l'atteggiamento di quanti , successivamente, di fronte al progressivo collasso delle strutture fondamentali di governo, non abbiano avvertito l'esigenza , dettata dall'interesse nazionale, di dare mano al suo superamento con una modesta modifica costituzionale o regolamentare.
Per la verità, uno sforzo alto in questa direzione vi fu, a mio avviso , con la bicamerale che rappresentò un tentativo d'innovare con il concorso di tutti recuperando la tradizione repubblicana ed il deposito di esperienze e valori da questa sedimentato. Certo la legge costituzionale istitutiva della bicamerale si scosta dalla procedura stabilita dall'articolo 138 della Costituzione, ma questo strappo che, in prima lettura mi lasciò perplesso, era ampiamente compensato dal fatto che esso faceva comunque salvo il nucleo duro di tale previsione, e cioè la strada parlamentare, sbarrando il passo ad ipotesi di nuove costituenti , e, soprattutto, dalla considerazione che il campo dell'innovazione era univocamente delimitato alla seconda parte della Costituzione. In tal modo riconfermando con un voto a larghissima maggioranza la validità dei principi fondamentali e dei valori di base del patto del 1948. Quel voto infatti rappresentava l'accettazione , da parte di tutti ( anche di chi proveniva da una tradizione rimasta estranea ed ostile alla Costituzione ) della parte prima della Carta e quindi la riconduzione del processo entro l'alveo del costituzionalismo, che è fatto di sovranità popolare e di limiti alla sovranità, di innovazione e di gelosa salvaguardia di valori fondanti. Esso implicitamente recuperava il lavoro comune compiuto nei primi cinquant'anni della vita repubblicana; lavoro che, su temi cruciali, ha fuso tradizioni diverse , conciliato principio di eguaglianza e valore della persona, responsabilità verso il futuro e solidarietà, identità nazionale, principio internazionalistico e aperture sovranazionali.
In quel lavoro ha preso forma un'identità nazionale che si è fatta attraverso il richiamo alla Costituzione. Chi oggi irride o soltanto svaluta questo richiamo e la sua carica identitaria dovrebbe por mente ad alcuni dati, di solito trascurati. Ad esempio, esiste oggi una quasi unanimità del parlamento italiano nel ripudio della pena di morte, non solo come adesione al precetto dell'articolo 27 della Costituzione, che ancora vent'anni fa veniva contestato, ma come stigmatizzazione di questo istituto come negatore in radice del valore della persona, tanto che nel corso degli anni novanta il Presidente Scalfaro ha potuto avere la gioia di firmare una legge, votata a larghissima maggioranza, che aboliva la pena di morte dal codice penale militare di guerra che la prevedeva senza esser in contrasto con l'articolo 27 della Costituzione. Non solo: in questa legislatura si è costituito in seno al Senato un Comitato per l'abolizione della pena di morte nel mondo, formato da un rappresentante per ciascun gruppo politico. Ne ho fatto parte per il gruppo Ds dopo che il presidente del gruppo, Salvi, originariamente designato, si è dimesso a seguito della sua nomina a ministro. Questo comitato ha svolto, con il concorso attivo di tutti i suoi componenti, un'intensa attività di diplomazia parlamentare, ottenendo successi non trascurabili. In questa sua attività, il comitato ha potuto approfondire le ragioni della scelta del parlamento e dell'opinione pubblica italiana contro la pena di morte, riconducendo la battaglia abolizionista ad una battaglia per i diritti umani e per la dignità della persona. Una battaglia che implica un delicato rapporto tra istituzioni e società civile perché - specie in presenza di delitti efferati o di un clima di insicurezza- è forte il rischio che l'esemplarità del castigo, l'efferatezza delle pene, venga reclamata dalla pubblica opinione ed instauri un circolo vizioso tra consenso politico e pena capitale. Il comitato ha sperimentato che esiste la possibilità di costruire un altro canale di comunicazione tra istituzioni e società, fondato sulla responsabilità, sull'intelligenza delle cose , su di un comune sentire. In Italia, per la verità, stampa, radio, televisioni affrontano con grande responsabilità questo passaggio delicato con riferimento alla pena capitale E' un tratto della nostra identità. Ma questo tratto- che ha illustri precedenti nella nostra storia preunitaria ( in Toscana si celebra, giustamente, l'anniversario dell'abolizione della pena captale nel Granducato )- ha potuto diventare carattere della nostra identità nazionale grazie alla Costituzione ed alla lenta assimilazione dei suoi valori portanti. Altrettanto dicasi per i diritti umani , altro tema sul quale la sensibilità del parlamento è diffusa , e per la stessa nozione d'indivisibilità dei diritti umani, affermata dalla Carta europea dei diritti, a favore della quale la Camera dei deputati si è pronunciata quasi all'unanimità. Indivisibilità dei diritti umani significa che i diritti civili, politici, sociali, economici e culturali sono tra loro interdipendenti e tutti espressione di un medesimo valore: la dignità dell'essere umano.
Come non vedere in questo consenso l'eco di un'identità che ha trovato nell'accidentato cammino della nostra esperienza repubblicana il suo crogiolo ed il suo materiale di formazione?
Ma anche, come non vedere che, ignorando questa esperienza, disperdendone gli apporti, assumendo che la Repubblica sta nascendo solo ora o liquidando senza beneficio d'inventario il bilancio di oltre mezzo secolo di storia e le idee-forza che l'hanno nutrito, quelle acquisizioni di civiltà, che ora possono sembrare scontate e non lo sono affatto, divengono fragili; così come noi stessi ci ritroviamo fragili e senza bussola a fronte dei grandi sconvolgimenti che comunque ci toccano?
E ancora, per finire. L'integrazione europea è un processo irreversibile. E' una risposta obbligata alla crisi dello stato-nazione ed al tempo stesso il compimento di una vocazione profonda del nostro paese nella quale la comunità nazionale, all'origine divisa, si è ritrovata unita nel corso dell'esperienza repubblicana.
Ci si chiede: Come partecipare all'Europa senza cessare di essere una nazione? La storia dell'esperienza repubblicana può aiutare a trovare la risposta, tanto quanto di quella storia si riscoprano i valori della coesione nazionale e le ragioni della solidarietà civile e ci si impegni perché l'Europa si costruisca come proiezione e dilatazione di quei valori, come luogo in cui quei valori , minacciati dalle mutazioni in atto nel pianeta e dalla perdita di funzioni dello Stato che doveva realizzarli, possono trovare nuova possibilità di realizzazione.
Su questo fascio di questioni vorremmo riflettere stamani prima di ascoltare infine le considerazioni conclusive del presidente Scalfaro.