Claudio Martini

 

Quando si parla di memoria, ci sono sempre alcune domande che mi pongo: che cosa portiamo dentro? Che cosa portiamo con noi quando entriamo in un mondo nuovo? Come possiamo definire il nuovo millennio, l’era della globalizzazione, lo spazio senza frontiere della rete?

Talvolta sembra che si ricominci davvero da zero; chi entra in un nuovo contesto vi arriva lasciandosi dietro come un fardello il faticoso lavoro di elaborazione che ha fatto fino ad allora.

Parlando di memorie si deve impedire questo processo di rimozione, e forse non è senza significato il fatto che si affronti questa questione proprio qui in Toscana, una regione che ha sempre avuto la straordinaria capacità di andare verso il futuro portandosi dietro tutta la sua tradizione.

Io credo che memoria significhi questo: andare verso il futuro portandosi dietro i risultati del lavoro compiuto.

Il concetto stesso di innovazione, che ultimamente sembra essere diventato la parola taumaturgica di ogni dibattito politico e culturale, non implica sempre e soltanto discontinuità: innovazione è anche riuscire a dare continuità alle cose migliori dalle quali veniamo.

Lo dico per esperienza personale: tante volte mi sono sorpreso nel vedere certi nuovi presidenti, nuovi sindaci, nuovi amministratori che considerano innovativo azzerare tutto quello che è stato fatto prima di loro e dire: “ora arrivo io e inizia l’era dell’innovazione”. Personalmente ho cercato di sfuggire a questo rischio considerando innovativo il riuscire a concretizzare ciò che di positivo è stato fatto in precedenza.

Ma ritornando al tema della memoria storica della nostra esperienza repubblicana chiediamoci: che cosa di essa dobbiamo conservare?

Di fronte al rischio della ripresa della cultura dell’odio, della contrapposizione, della battaglia contro le diversità, è fondamentale conservare la memoria di alcuni elementi essenziali: le vicende che hanno portato alla nascita della Repubblica, la resistenza, la consapevolezza dei grandi conflitti che ci sono stati.

Non a caso la nostra regione, assieme a molti comuni, ha recentemente avanzato una petizione al presidente della Repubblica e alle più alte cariche dello Stato perché gli armadi che contengono i fascicoli sulle stragi nazifasciste siano finalmente riaperti e si facciano fino in fondo i processi che dicano la verità.

Ma la memoria non è solo questo; è importante conservare anche, ad esempio, la memoria di tutti i percorsi che hanno portato alle grandi conquiste sul lavoro. Per ciò che riguarda questo tema, è preoccupante l’attuale dibattito politico sui temi della flessibilità - che io considero una delle necessità del nostro tempo – intesa come qualcosa che svuoti i diritti dei lavoratori. Anche questo è un problema di memoria, perché la flessibilità va intesa come uno strumento in grado di dare risposte concrete ai problemi dei diritti e dello sviluppo. La flessibilità è uno strumento, non è parte della Costituzione.

La Costituzione garantisce molti diritti che possono essere organizzati in vari modi: nel corso di alcuni decenni della nostra storia, sono stati garantiti in modo forse un po’ troppo immobilistico, oggi possiamo vedere di organizzarli diversamente, ma sempre in nome e in difesa di quei diritti, non contro di essi. Lo stesso vale per il tema delle libertà individuali e collettive, dei diritti sociali e personali.

In sostanza credo dobbiamo rompere la nebbia che fa svanire il cammino percorso e portarsi dietro l’esperienza.

L’ultima riflessione che voglio fare è sulla parola e sul concetto di “bilanci”.

Anche in questo caso mi pongo alcune domande: se è vero che, in questi tempi, stiamo assistendo ad una sorta di attacco alla prima parte della Costituzione e anche ad alcuni aspetti della seconda, e se è vero che questo attacco mira a creare dissenso e distacco nei confronti della Costituzione, ciò non avviene forse anche perché qualche consenso oggettivamente ha cominciato a serpeggiare nella nostra comunità nazionale attorno a certe tesi distruttive?

Secondo me su questo è bene iniziare a ragionare. Naturalmente questa voglia di “ritoccare” la Costituzione è alimentata ad arte, ma se non vi fosse l’aspettativa di un consenso probabilmente anche l’attacco sarebbe meno insidioso e virulento.

Questo elemento si collega ad una seconda riflessione: l’intangibilità della Costituzione viene certo da una forte tenuta democratica e culturale, ma sta anche nei risultati concreti che la democrazia ottiene. In questi 50 anni credo che abbiamo ottenuto dei grandi risultati, però non tutto è stato realizzato. Il senso di incompiutezza deriva anche dalla persistenza di quei non-risultati che si chiamano burocrazia, inefficienza, corruzione, e ne parlo apertamente in una regione in cui in questi giorni si sta vivendo il dramma emotivo delle tangenti.

Sulla questione dei risultati della democrazia si deve riflettere, ma deve essere chiaro che il valore della Costituzione è indipendente dalla eventuale insufficienza dei risultati: se ci sono limiti torniamo alla Costituzione, non critichiamola e basta.

Questo è il percorso che noi dobbiamo costruire: credo che uno dei limiti nostri sia stato quello di non aver avuto il coraggio o la forza o l’opportunità di riformare la Costituzione e farla riaggiornare per renderla costantemente in sintonia con le esigenze contemporanee.