Egregi e gentili signori,
prima di tutto voglio ringraziare tutti coloro che hanno pensato di celebrare questo “Giorno della Memoria” per ricordare il campo di Oliveto. Voglio esprimere anche la mia gioia per essere stato invitato a partecipare e raccontare ricordi di eventi che non dimenticherò mai.
La mia famiglia viene da Gibilterra mio padre faceva il sarto e io sono nato il 22.10.1935 nel quartiere ebraico di Tripoli in Libia.
Avevo cinque anni quando i soldati di Mussolini hanno messo sul muro del nostro quartiere manifesti in cui ci veniva ordinato di raccoglierci alla Grande Sinagoga con una valigia contenente lo stretto necessario. Quando io, mio padre, mia madre tre fratelli e una sorella siamo arrivati abbiamo trovato dei soldati che ci hanno condotto al porto. Da qui siamo partiti per l’Italia a bordo di un piroscafo. Siamo arrivati a Napoli. Scesi dal piroscafo senza nemmeno la nostra valigia che non ci è mai stata riconsegnata. Così non avevamo più niente. Solo gli abiti che avevamo addosso.
Senza sapere perché e neppure senza poter domandare che cosa avevamo fatto di male ci hanno messo in carcere per due settimane senza abiti per poterci cambiare né avevamo coperte per ripararci dal freddo. Quasi tutti ci siamo ammalati e così ci hanno portato all’ospedale di Napoli.
Dopo pochi giorni siamo stati condotti con un autocarro ad Oliveto dove siamo rimasti per tre anni. Quando siamo arrivati alla villa c’erano già lì cristiani, indiani, inglesi e altra gente. Tutti quelli arrivati dalla Libia erano ebrei.
La Croce Rossa distribuiva tutti i mesi qualche soldo. Arrivava anche una scatola di cartone con abiti e coperte. Chi non riusciva a trovare un abito della sua misura restava con la stessa camicia e con gli stessi pantaloni, con le calze sporche e la scarpe bucate aspettando un nuovo mese per poter avere un avito di ricambio. Ma quasi sempre gli abiti che ci portavano non bastavano a tutti.
La mattina dicevamo le preghiere.
Ogni settimana il Commissario permetteva ad un uomo del gruppo di andare ad Arezzo, sotto la guardia di un poliziotto, per comprare conserve e vegetali per tutti.
Mia madre cucinava ogni giorno una zuppa di legumi, sempre la stessa perché questo era il cibo disponibile. Infatti avevamo per mangiare legumi, pane, olio, riso ma mai la carne.
Nel campo vivevano circa 30 bambini e io ricordo che insieme a molti di loro mi mettevo di fronte al cancello del campo e vedevamo gli agricoltori sui carri pieni di frutta, legumi e verdura fresca che portavano ai mercati in città. Noi mettevamo le braccia fuori dal cancello e chiedevamo qualche grappolo d’uva o qualche altra frutta dicendo. Per convincerli a darci qualcosa dicevamo che la frutta l’avremo a nostra madre che era incinta. Noi bambini giocavamo a calcio e due o tre volte alla settimana. Uno degli internati, che era un maestro, ci insegnava la lingua inglese. Abbiamo così imparato una lingua che poi ci è servita per parlare con i tedeschi quando siamo arrivati in Germania.
Gli internati potevano uscire nel giardino della villa sempre sotto la guardia di un poliziotto. Non avevamo nessun rapporto con gli abitanti di Oliveto.
Della caduta del fascismo, dell’armistizio dell’8 settembre e della successiva occupazione tedesca dell’Italia non sapemmo niente.
Tutta la famiglia abitava in una sola stanza nel terzo piano della villa. Mio padre dormiva con me nello stesso letto io ero il più piccolo. Ricordo che il letto era molto stretto per questo io dormivo attaccato alla parete.
Una notte mentre dormivo ho sentito che intorno a me c’era molto spazio , mi sono svegliato e ho visto che mio padre non era più accanto a me e nemmeno nella stanza.
Vidi la luce nel corridoio e mi accorsi che era quella del bagno. Bussai alla porta e mio padre mi disse di chiamare mio fratello perché si sentiva molto male.
Immediatamente mio fratello si svegliò e andò dal segretario che gli permise di andare ad Arezzo, a piedi, per chiamare un dottore. Dopo poche ore ritornò con il dottore che fece a mio padre una iniezione dopo una piccola visita. La medicina forse non era quella che doveva dare e così mio padre morì. Quando arrivò il dottore dell’ospedale chiese al medico che lo aveva visitato il farmaco che gli aveva dato. Quando seppe il nome del farmaco disse al medico, con grande tristezza: “L’hai ammazzato”. Questa parola mi restò in mente e mi risuona nelle orecchie ogni volta che pensa a mio padre come fosse oggi. Aveva solo 42 anni e sono già passati 59 anni ma io non dimentico.
L’abbiamo sepolto nel cimitero di Oliveto. Al funerale hanno partecipato ebrei e cristiani. Ricordo che durante il rito funebre sentivamo il rumore di bombardamenti molto vicini a Oliveto. A sette anni rimasi orfano di padre. Mia madre si fece vecchia di vent’anni in più nello stesso giorno.
Un giorno sono arrivati al campo soldati tedeschi con due autocarri. Un soldato tedesco gridando fece salire sui camion tutti gli ebrei.
Di nuovo, solo con un piccolo pacco in mano, ma questa volta senza papà, lasciando tutto dietro di noi partimmo da Oliveto e giungemmo a Modena.
Da Modena, con un treno merci, come animali, senza sapere dove eravamo diretti siamo arrivati al campo di concentramento di a Bergen Belsen e qui sono arrivati i giorni più lunghi e terribili. Quasi sempre senza cibo, col freddo, la neve, le malattie e la morte, i dispiaceri, lamenti e lacrime senza sapere cosa sarà domani. Avevo quasi 10 anni e non avevo ancora frequentato le elementari.
Quello che abbiamo passato a Oliveto era Paradiso al confronto di Bergen Belzen.
La nostra sopravvivenza fu il risultato di un caso assolutamente fortunato. Riuscimmo a salvarci da Bergen Belsen perché le autorità del campo decisero di sottrarci ad una morte sicura per scambiarci, in quanto cittadini britannici, con dei soldati tedeschi prigionieri degli inglesi. Partimmo da lì con un treno che ci portò fino a Lisbona da dove con un piroscafo ritornammo a Tripoli.
La nostra storia assomiglia a tanti racconti già raccontati, tantissimi volti visti alla televisione di gente che hanno tanto sofferto, che hanno visto la morte, i forni, canali pieni di persone morte di fame e coperti con la sabbia.
Ringrazio il Dio che siamo rimasti vivi.
Gabriel Burbea